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Il vero nome di Ernest Hemingway era Alessandro Laszlo. Ora lo possiamo rivelare, perché contrariamente a quanto si pensava il noto scrittore non è affatto morto, anzi è vivissimo come si può vedere dalla foto di Laszlo ripreso nel salotto di casa. Tuttavia, pur essendo vispo come una tarantola, Laszlo-Hemingway è prigioniero di una città orrenda, fumigante di terribili esalazioni e con dei governanti che lo vogliono morto (anzi, per la verità vogliono morti tutti).Per questo il grande romanziere e giornalista vive - salvo qualche sortita abilmente camuffata che compie percorrendo le strade a folle velocità su un "vespino" rosso fuoco - barricato in casa, in compagnia di un tapiro, un pappagallo boemo, un'ocarina ungherese e una moglie che gli parla in francese. Non gli rimane che scrivere. Siamo onorati di mostrare la sua ultima produzione. |
Alessandro Làszlò
Il barone falaschi
Malinconie di Toscana
Il barone Falaschi si chiamava Taddeo, ma al tipografo al quale aveva ordinato i biglietti da visita s'era raccomandato: "Si ricordi: Tadeusz con una d sola, e s più z finale. Poi Fàlasky con l'accento sulla 'a', e k più ipsilon alla fine".
Tadeusz Fàlasky: faceva tanto Vecchia Europa e un po' di tono d'oltrecortina, specie adesso che la cortina non c'era più, gli sarebbe tornato più utile con la clientela.
Sulla targhetta d'ottone invecchiato che aveva avvitato sulla porta di casa sua - nel pieno centro storico della vecchia città toscana - sotto al nome così immisteriosito aveva fatto incidere in corsivo : Ricerche e Affari Legali.
Alla fine degli scarni studi, la laurea in legge non l'aveva mai raggiunta. Ma visto che il gran bisogno di quattrini gli aveva fatto prendere in considerazione l'idea di lavorare e che tutto sommato non pensava di dedicarsi a niente di illecito, aveva ritenuto che un anodino richiamo alla legalità non avrebbe potuto che giovargli.
Al barone Falaschi, più vicino ai quaranta che ai trenta (ma dalla parte di sopra), appassionato d'arte, piacevano le buone letture, la musica, lo spettacolo e lo sport. Tutte cose di cui non era certo avara la sua vecchia Toscana. D'altra parte, dopo tanto viaggiare, l'amava proprio per questo. Gli piacevano anche altri diversivi e suggestioni che, tuttavia, non gradiva troppo pubblicizzare, sensibile com'era - per educazione e consuetudine - a tutto quanto concerne la privacy. Soprattutto la sua.
Elegante e signorile, modesto e riservato, sempre sorridente era stato a lungo, insomma, quello che le mamme e le suocere di una volta definivano un vero signore volendo significare un buon partito; almeno fino a quando aveva potuto contare sul cospicuo patrimonio ereditario che tuttavia si era pian piano eroso, come le rocce millenarie, sulle scogliere e le spiagge di mezzo mondo, anche se il grosso era rimasto, ai piedi della antica Populonia, sui fondali del golfo di Baratti dove per anni s'era intestardito alla ricerca di vestigia etrusche.
In compenso era divenuto un sub semiprofessionista. "Semi", ovviamente, nel senso che non ci aveva mai guadagnato niente; e anche questo, se vogliamo, per una sorta di disadattamento incluso nell'eredità.
Tutto preso nel non dispiacere a nessuno, il barone Falaschi non si era mai negato, ma le tre mogli che aveva avuto - non essendo disgraziatamente né madri né suocere - dopo alcuni più o meno onesti sforzi di convivenza avevano dato forfait. Alla lista, per altro, bisognava aggiungere anche la coriacea Allegra (antica casata fiorentina di cui taceremo il blasone), nelle vesti di ultima affettuosa amicizia. Con Allegra, peraltro, continuava a vedersi di tanto in tanto pur avendo entrambi rinunciato alla costruzione di un più significativo rapporto.
Fisicamente Taddeo Falaschi non aveva niente di quella fragilità esangue tipica delle antiche casate: nel suo corpo possente, infatti, non c'era proprio la minima traccia di quell'astenia longilinea tanto snob, ma francamente parlando anche un po' malaticcia, tipica di certi remoti lignaggi.
Lui ne conosceva il motivo - o almeno uno dei motivi - e la cosa lo divertiva con serena consapevolezza: sapeva di appartenere ad uno storico o blasone, ma - fortunatamente - solo per via adottiva. Il vecchio barone Falaschi, suo padre, e la nobildonna Agata De'Gerardi-Lipstein, sua madre, infatti l'avevano prima affiliato e successivamente adottato con tutte le regole quando si erano malinconicamente arresi alla loro incapacità riproduttiva.
Così, Taddeo - che nella vecchia casa aveva portato un soffio di gioviale vitalità - adesso si portava a spasso il suo metro e novanta di muscoli asciutti che gli facevano dimostrare a dir poco dieci anni di meno. Il fisico atletico e scattante, era arricchito inoltre da un bel volto disegnato al quale gli occhi profondi conferivano un indiscutibile fascino.
La casa l'aveva di proprietà. Nello studio annesso, a parte il richiamo agli affari legali, sostanzialmente esercitava attività di consulenze turistiche per i numerosi stranieri che venivano in città o per gli amici ricchi che anelavano a ripercorrere le fascinose tappe lungo le quali lui stesso aveva lasciato scivolare gran parte delle sue sostanze.
La conoscenza di sei o sette lingue ed una consolidata esperienza di ex-gaudente, così, gli permettevano ancora, oltre che di sopravvivere con dignità, di partecipare attivamente alle gioie dell'esistenza.
Insomma, a parte il patrimonio quasi del tutto esaurito, i naufragi matrimoniali e la mancanza di una vera occupazione, le immediate previsioni potevano ancora promettergli molto.
Il barone Falaschi, però, non era uomo da contentarsi di una qualsiasi routine, sia pure di classe. Così, la sua proverbiale, solare giovialità aveva cominciato ad accusare qualche colpo.
Sarà stata l'età più matura o, più in concreto, l'avvertibile mancanza di fondi che in qualche modo lo faceva sentire - lui, per niente avvezzo - sottoposto a dei limiti; fatto sta che da un po' di tempo, Taddeo soffriva di una sensazione del tutto nuova. Un po' di malinconia, forse.
Le galoppate lungo la spiaggia che ancora saltuariamente si concedeva quando d'inverno andava in visita da certi amici in Versilia rallegravano solo il cavallo.
Provava, è vero, ancora una gioia infinita quando, nel soggiorno del suo attico che dava direttamente sulla cupola della cattedrale, imbracciato il suo adorato strumento - il violino - si dedicava all'esecuzione di qualche brano di Brahms. Adorava ancora - lo ammetteva lui stesso - rileggere, anche ad alta voce con quel suo incoercibile accento tosco-maremmano, Ferlinghetti, Maupassant, Pavese, anche se lo disturbava un po' non trovare autori nuovi ai quali appassionarsi. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla rituale passeggiata a piedi per ammirare alla fine, gli affreschi del "suo" Piero della Francesca o del Beato Angelico.
Però, al fondo dell'animo suo, avvertiva come un rovello, un tarlo, un'ansia che lo rodeva. Tanto più che se ne faceva una colpa. Non tanto il numero e la portata dei trascorso insuccessi infatti lo facevano dannare, quanto il fatto che questi, evidentemente, alla lunga rischiavano di avere la meglio su di lui, sul suo carattere, sul suo modo di vivere. Quel suo nuovo disagio, alla fine, aveva inevitabilmente finito per rendersi manifesto.
Se n'era accorto per primo, il Donati, l'affezionato salumaio di fiducia dal quale da anni si recava lui stesso a fare acquisti.
"Ma come, barone - gli aveva detto, un giorno - oggi niente salsiccine di Siena? Le taglio un po' di soprassata di Radda? Del prosciuttino di cinghiale? Le olive sotto ranno, le vuole? Ma che ha? Non si sente bene?".
Appassionato di salumi e di affettati, di cui fra l'altro la sua regione è così generosa, il barone Falaschi, infatti non si faceva mai mancare abbondanti scorte di stuzzicanti specialità.
"Non si sa mai - diceva - qualche cenetta intima all'improvviso, in questo modo si risolve sempre! Tutto sta con cosa l'annaffi. Ma fa' come ti dico e non sbagli mai: Brunello, Barbaresco o champagne. Vai tranquillo!".
Ma, negli ultimi tempi, neanche queste ipotetiche delizie sembravano sollevargli il morale e sempre più spesso si contentava di un paio d'uova sode, massimo una scodella di zuppa lombarda, ma solo quando da Castelfranco di Sopra, dall'Aretino, gli mandavano quell'olio nuovo verde come lo smeraldo, pizzichino e profumato come la gioventù.
Ora, visto che le noie non arrivano mai sole, si sa come vanno certe cose. Specie quando uno si è fatto un certo tipo di fama, qualsiasi variazione al cliché - anche se imposto dagli altri - all'inizio viene sempre vista con sospetto; con fastidio dopo.
Così, prima i conoscenti, poi gli amici e, dopo, i clienti cominciarono a pensarci due volte prima di cercare nel barone Falaschi quelle certezze di spensieratezza e di gioia di vivere che aveva sempre rappresentato.
La natura, d'altra parte, come si sa, è amorale; perfino il branco tende ad isolare l'animale in difficoltà. Figuriamoci gli uomini.
Accorgersene e peggiorare per Taddeo fu tutt'uno. Così non solo cominciò a trascurare il salumaio Donati, ma perfino a disinteressarsi di quei nutrimenti deliziosi che erano state fino ad allora le sue letture e le sue passeggiate artistiche.
Il violino rimase per settimane chiuso nell'astuccio e dimenticato sotto una finestra dove la luce e le variazioni di temperatura, certo, non gli giovavano.
Perfino le sedute in palestra e gli allenamenti con il maestro di arti marziali, da quotidiane si fecero settimanali.
Taddeo cominciò, per la prima volta in vita sua, ad aver paura. E il peggio era che non riusciva con certezza a rendersi conto del perché.
Non temeva né la miseria vera e propria ("Dio bono! Qualcosa da fare, lo troverò!"), né aveva preoccupazioni per la salute. Quanto al progredire dell'età, di tempo davanti ne aveva ancora tanto; e poi la prospettiva non l'aveva mai immalinconito.
No, no. Ci doveva essere qualcosa d'altro. E comunque sentire che piano piano attorno a lui si faceva il vuoto, gli faceva aumentare quell'ansia, quella sensazione di allarme che, in fondo, era alla base di tutto il suo originario malessere.
Allegra, comunque, gli si era sempre dimostrata, se non vicina, disponibile.
Così cominciò a frequentarla non più spesso, ma in maniera diversa: senza doverla divertire per forza, senza doverle offrire né dimostrare niente.
Facevano lunghe passeggiate e spesso si spingevano addirittura ai limiti della città.
"Vedi" le diceva scherzando "sei contenta che si fa come l'Alfieri?".
"Il cinema?"
"No, Vittorio".
"Perché?" chiedeva curiosa.
"Perché anche lui" e declamava a memoria "errava muto ove Arno è più deserto, i campi e il cielo desïoso mirando... Oh, ma lo dice il Foscolo, eh, mica io!".
Allegra gli si faceva un po' più vicina. Lui ne scoprì l'affettuosità e riconosceva autentico l'interessamento che gli dimostrava, anche se lei non riusciva a comprendere il malessere che lo aveva irretito.
"Ma in fondo" si diceva il Falaschi "è meglio così, poverina".
Insomma, in fin dei conti gli unici momenti in cui si rilassava e dimenticava per un po' il suo rovello erano quelli che trascorreva con l'amica. Con lei si poteva non dico sfogare, ma aprire e confidare sì.
E la cosa non lo disturbava, anzi. Gli dava sicurezza e tranquillità perché si accorse che lei non lo misurava né lo giudicava. Lo stava semplicemente a sentire rendendosi conto che, in questo modo, poteva aiutarlo.
Anche fisicamente la sua vicinanza, la sua compagnia - fatta oramai anche di non temuti silenzi - lo rinfrancava. E sempre più spesso, il barone si sorprese ad osservarla - senza farsene accorgere - con una tenerezza nuova; quasi di nascosto, ma solo per il gusto di centellinarne meglio la pelle bronzea, lo sguardo nocciola, i lunghi capelli castani, magari mentre sfogliava una rivista o si perdeva a fissare il panorama della città che le finestre dell'appartamento dominavano dall'alto.
"Mi piacerebbe saper almeno disegnare - pensava in quelle occasioni - La calma eleganza della nuca o della curva della sua spalla mentre se ne sta in poltrona; o quella fra il polso e l'avambraccio mentre gira la pagina...Sembra proprio un disegno; la fotografia non le renderebbe mai giustizia".
Insomma fu così che il barone Falaschi ritrovò - forse scoprì - un certo tepore dell'anima; il piacere di ricevere oltre quello del dare.
Cominciò piano piano ad uscire da quel torpore melanconico che l'aveva afflitto. Poi, con razionalità ed energia, aiutato anche dalle risorse che il suo fisico possente gli avevano sempre garantito, decise che si sarebbe riportato a galla.
"Oh, finalmente! - gli disse Allegra, un dopo cena in cui lui s'era deciso a riaccordare il violino - Così sì che mi piaci! Questo è il mio vecchio, simpatico Taddeo. Suonami ancora quella musica zigana, quel brano di Sherazade che mi piace tanto!"
"Sarasate, Allegra, Sarasate" le rispose sorridendo, ancora insicuro "Pablo Sarasate è l'autore...Ma diamine per quello è ancora un po' presto, non ti pare? Ci vuole altro...".
Posò il violino sul divano, di fianco al caminetto. Nonostante tutto, continuava ad interrogarsi e ad arrovellarsi, fra l'altro, per essere stato come bandito, isolato da quelli che aveva sempre considerato amici.
Guardandosi nel grande specchio, si passò una mano sulle guance smagrite, le sopracciglia aggrottate come cercando ancora una risposta. Poi, d'improvviso, si rivolse a Allegra e le chiese:
"Di' un po', ma...non sarà mica perché sono negro?".