GIOVANNI DALLE BANDE NERE

 

 Il 1998 e' stato l'anno del 500° anniversario della nascita di Giovanni de' Medici, detto "dalle Bande Nere". Il grande capitano rinascimentale e' stato discusso in una tavola rotonda a Firenze, organizzata dalla "Compagnia de' Semplici". Vi hanno partecipatoil professor Mario Scalini, direttore del Museo degli Argenti di Firenze; il professor UgoBarlozzetti, docente di Storia dell'Arte; il professor Francesco Gurrieri, preside della Facoltà di Architettura dell'Università di Firenze; il professor Franco Cardini, ordinario di Storia Medievale all'Università di Firenze.

 Riportiamo il testo integrale dei loro interventi

 Franco Generini (Semplice Magnifico della Compagnia)

Apro questa tavola rotonda, che dà inizio alla giornata in onore di Giovanni dalle Bande Nere, nel cinquecentesimo anniversario della sua nascita. Quale personaggio fosse, che rilievo avesse nel suo tempo, e cosa fossero Firenze e l'Italia fra la fine del 1400 e il primo quarto del secolo successivo, spetta agli esperti e agli studiosi qui presenti discuterne e spiegarcelo, noi della Compagnia de' Semplici abbiamo solo voluto farci parte diligente e attiva, per suscitare una riflessione su un grande personaggio della storia della città, un personaggio che ci è parso persino un po’ dimenticato, e abbiamo voluto onorarlo perché emblematico delle nostre radici, ed anche delle contraddizioni di quella Firenze del passato che spesso si cita, ma assai meno si conosce. La Compagnia dè semplici è invece convinta della necessità che la conoscenza del passato è indispensabile, per costruire il presente e il futuro, e pertanto questo impegno associativo, la sua ragione d'essere, è volta proprio non solo ad aiutare, alla conoscenza delle tradizioni e della memoria storica fiorentina, ma anche allo stimolo, e all'aiuto perché quelle di queste grandi tradizioni storiche, culturali ed artistiche che ancora permangono, o che debbano essere fatte tornare in vita e rinnovate, è necessario abbiano il nostro impegno e il nostro appoggio. È in questa direzione che la Compagnia de' Semplici ha voluto operare, la collaborazione con l'Osservatorio Ximeniano per il restauro di antiche strumentazioni costituisce l'esempio più recente, ma non è che citando queste nostre iniziative vogliamo metterci il fiore all'occhiello, o come si dice più popolarmente, farci belli con le penne del pavone, ho solo voluto divulgare quello che normalmente sanno solo i membri della Compagnia, e i destinatari delle iniziative, per due precisi motivi: un'affermazione e un auspicio. L'affermazione è quella che, secondo la nostra concezione di come si deve vivere nei tempi moderni la nostra città, la fiorentinità vera si vede attraverso l'attivazione delle cose concrete, che diano un senso alla cultura e ad un civile modo di vivere gli spazi cittadini e le sue istituzioni, da quelle grandi, a quelle piccole, da quelle pubbliche a quelle private, con partecipazione ed impegno, Firenze fu un esempio sempre grande nel bene, che fu nei secoli passati moltissimo, e probabilmente anche nel male, che ogni passaggio ed epoca storica, nel suo bagaglio etnico, culturale, di vita quotidiana, di aspirazioni e di idee. In questo forse, Giovanni dalle Bande Nere è un fiorentino esemplare, fedele alla Repubblica, ma al tempo stesso è un Medici sia pure del ramo cadetto, la famiglia che alla Repubblica tolse la libertà e del quale faceva parte suo figlio, primo Granduca toscano. Giovanni fu coraggioso e spietato, ma leale e disinteressato a un tempo; questa naturalmente non è una lettura storica del personaggio, che non spetta a me, è solo una lettura emotiva, e lo dico senza nessuna timidezza, perché, e questo è l'auspicio che vogliamo fare, non dobbiamo vedere la nostra città e cioè quello che siamo stati, e perciò siamo e saremo, come un immobile esaltazione di miti e passive rendite artistiche, che non hanno più un senso concreto, invece un assunzione, di responsabilità, per tornare ad essere, in un mondo sempre meno angusto di quello che ci raffiguriamo, in una Firenze senza rimpianti e senza chiusure, con l'orgoglio e la consapevolezza di chi eravamo e di cosa abbiamo fatto, nel bene e nel male, rinunciando all'egoismo del particulare, del quale si doleva giustamente Niccolò Machiavelli, e che in fondo fu una delle concause, dell'unica grande sconfitta del grande capitano, per pensare a una Firenze che salvi il suo passato, per costruire il suo futuro. Garantisco che la Compagnia de' Semplici in questo quadro fa e farà quello che le compete, e che sta alla base della sua nascita e della sua esistenza.

Un ringraziamento particolare al priore di San Lorenzo, Monsignor Angelo Livi per averci accolto in questo bellissimo posto e, diciamo, forse il più ideale per parlare di un Medici. Grazie di nuovo. Adesso grazie, e buon lavoro.

Prof. Mario Scalini

"Fu questo signore di statura più che comune, di capo piuttosto grosso che altrimenti, di viso pieno, e colore più che altro pallido, di poca barba e rara, di bellissima carnagione, in che, molto si rassomigliava alla madre, come ancora nelle opere, la quale fu delle rare donne di valore che giammai fossero, come scrive il Machiavello, gli occhi non furono né grandi, né piccoli, il naso piccolo e seguente, di bocca onesta e di una voce spaventevole, quando nel combattere esortava e comandava, largo nelle spalle, il braccio tondo e grosso, il quale aveva sì forte che non trovava riscontro che lo reggesse, la mano era piana e corta, e fortissima, e del dito anulare era stroppiato, nella cintura stretto, di bellissima gamba, di piè piccolo, bellissimo cavalcatore e giocatore di palla grossa, gran lottatore e nuotatore, tirava il palo di ferro molto forte, massimamente all'indietro, ebbe noia di ogni sorte di gioco e di buffoni, e fu di pochissimo cibo e sano del corpo, perché non ebbe mai infermità grave, gli piaceva più l'acqua che il vino, fu pazientissimo nel tollerare ogni sorta di disagi, massimamente la fame e la sete."

Questo è il ritratto che dà Girolamo Rossi di S.Secondo, vescovo di Pavia, e in parte imparentato con Giovanni dalle Bande Nere, nella vita che egli dedica al Granduca Cosimo I. Mi dispiace dovere presentarvi fisicamente Giovanni dalle Bande Nere solo con queste parole. Abbiamo la sua armatura, che è tutto quello che di lui resta e che è stato restaurato a suo tempo dal gabinetto di restauro archeologico della sovrindentenza per l'Etruria ed è stato poi riconsegnato al museo Stibbert, dove era anche in precedenza, in parte esposto, in parte mantenuto nel deposito. Questa specie di armatura, dico una specie perché oggi come oggi è mezza costituita di resina, con grosso sforzo e grande perizia dei restauratori, è di fatto l'immagine più vivida che abbiamo di lui, ed è un'immagine che è stata molto discussa, nel senso che si è pensato, non solo che fosse l'armatura funebre, ma di fatto probabilmente anche quella d'uso. Ora, tutti lo conosciamo come Giovanni dalle Bande Nere ed è molto suggestivo che questo apparecchio difensivo sia completamente annerito, nato di quel colore, o meglio, è stato più probabilmente abbrunito, o abbrunato, per il bruno, cioè per la cerimonia funebre, che come sapete si svolse a Mantova, e realisticamente quella armatura ha accompagnato il feretro nella sua sepoltura nelle cappelle medicee. Ad essere onesti ci sono anche altri resti di Giovanni dalle Bande Nere, quelli che erano finiti nella cranioteca medicea come sapete negli anni '40, cosa abbastanza orrenda da immaginare oggi, e adesso di nuovo riposano in pace come le altre ceneri medicee qui in San Lorenzo, e alcuni rimasugli di tessuto che dimostrano che sotto quest'equipaggiamento portava un farsetto di velluto verde, evidentemente anche abbastanza elegante, visto che aveva tutti i puntali di rame. Questo per dire che il personaggio probabilmente risponde abbastanza fedelmente a quella che è l'impostazione della figura che se ne trae nella vita del vescovo di Pavia, da cui ho stralciato il passo introduttivo. E in realtà è un giovane, perché la sua carriera purtroppo viene stroncata a 28 anni, purtroppo o per fortuna, dipende se la si guarda dalla parte imperiale o dalla parte francese, e poi non si sa bene da che parte stesse, visto che qualche volta ha cambiato, ma comunque è una vita intensa, intensa e spesa in maniera molto semplice, da un punto di vista del quotidiano, e molto ardita, si parla in continuazione nel tratteggiare la sua figura di liberalità, il fatto che in qualche modo il personaggio non bramasse in nessun modo mantenere i beni mondani per sè, quanto piuttosto per la famiglia, due volte riprenderà i terreni e i territori della sorella per garantirli ai nipoti, ma malgrado abbia sconfinato in Lunigiana creando notevolissimi problemi ai Malaspina, abbia conquistato una quantità anche di singoli castelli mentre era comandante, vuoi per i Francesi, vuoi per gli imperiali, o il papa se si vuole, a seconda del momento specifico, dipende chi lo pagava evidentemente, e come conveniva, per così dire, nell'economia generale della dinastia, ebbene questo personaggio si propone in termini, sostanzialmente spartani, cioè con una grande semplicità per quello che riguarda il suo quotidiano. Questo però non è vero nella sua gioventù, noi abbiamo la fortuna di avere un documento notarile e, dal registro delle armi che si porta dietro quando si reca a giostrare da giovane si capisce che gli anni sono quelli, perchè gli equipaggiamenti descritti sono quelli dei primissimi anni del secolo; si porta dietro un'infinità di materiali per la giostra, elmetti con frontali argentati asmaltati, attendamenti di seta, si porta le barde da cavallo a dozzine dipinte con i colori di casa, porta coppe d'argento, coppe in materiali semi-preziosi, qualcosa di simile a quello che si vede ancora del tesoro laurenziano. Quindi c'è, evidentemente, nella persona una scelta di vita, in un certo momento, trovandosi a dover lasciare Firenze, probabilmente per sfuggire in qualche modo a quella che era una situazione che lo ostracizzava per principio. Indubbiamente era un personaggio dai bollenti spiriti, perché immediatamente si distingue per essere aggressivo, e ammazzare letteralmente chi gli frenava il passo, ci si rende conto che questa sua aggressività che in qualche modo dev'essere contenuta e pilotata. Viene prima allontanato dai Salviati, dei quali sposa Maria, la figlia di Jacopo Salviati presso il quale all'inizio a Firenze viveva, si reca a Roma e anche lì dà prova di sé, passa Castel Sant'Angelo in mezzo a cento uomini della fazione degli Orsini, armati di picca, lui con altri venti in corsaletto, e i cronisti, tutti, dicono con grande disdoro di quest'ultimi. Cioè una prova di forza anche in un contesto diciamo semi-civile. Ora, parlare di quelle che erano le situazioni, non solo nella città di Firenze, ma a Roma, a Venezia nelle grandi città, è doversi calare in una situazione contingente completamente diversa da quella odierna, sappiamo benissimo delle consorterie medioevali, delle torri, delle serie addirittura di quadrati, se volete murati all'interno delle città stesse, e difese variamente. Però, questa sua irruenza giovanile a un certo punto viene contenuta, e come? sfogandosi in qualche modo nell'esercizio delle armi, questo lo capiscono immediatamente il papa e gli altri, che in qualche modo si trovano ad averlo nelle proprie città nei propri domini, e in sostanza lo avviano a quella che è una carriera che gli è congeniale, bravo com'è a usare la lancia, dicono tutti poco incline alle lettere, tant'è che persino i biografi più accondiscendenti, evitano accuratamemente di pensare che solo potesse conoscere Cesare, e voi mi insegnate che dei testi militari antichi era il più banalmente accessibile, non solo a chi conosceva un po’di latino, ma anche, già probabilmente in traduzione, il chè dimostra che questa attitudine è di fatto non acquisita, oppure filtrata attraverso una cultura umanistica, come poteva essere per un condottiero come Federico da Montefeltro, che è in qualche modo spontanea, il che gli dà dei vantaggi, gli dà dei vantaggi nella vita perché affronta senza pregiudizi situazioni particolari, non si preoccupa se rovescia completamente quelle che sono le convenzioni, anche militari, si mette spessissimo a tu per tu con i superiori e questo poi gli causa la necessità di dover spesso cambiare fazione e di fatto crea quella che è una milizia moderna, un modo diverso di fare la guerra, che non è solamente un modo di intendere la guerra. Mi spiego meglio: l'organizzazione militare rinascimentale, erede in qualche modo di quella del medioevo, prevede sì un certo numero di fanterie, che sono una grande innovazione, in seguito alla conoscenza delle fanterie svizzere armate di picca, ma sostanzialmente dei grossi nuclei di cavalleria più o meno organizzati in maniera diversa, i francesi in un modo, i tedeschi in un altro, diciamo che la lancia cioè un gruppo di persone che ruota intorno ad un cavallo, sul quale sta una barda, cioè una protezione corazzata su cui sta l'uomo d'arme, che è pure corazzatissimo, è praticamente una sorta di carro armato, cioè va poco più che diritto, nel senso che anche il cavallo è appesantito, combatte in schiera e travolge tutto quello che ha davanti. Stiamo facendo un po’ di mitologia, però è il contenuto sostanziale, quindi, corpi molto specializzati, e usabili come quadrati, ma in sostanza ancora una concezione se volete in qualche modo un po’ feudale. Arrivano anche le armi da fuoco; da un punto di vista pratico, con Giovanni dalle Bande Nere, constatata poi l'esistenza dell'artiglieria e la scarsa efficienza, sul campo, di queste cose, Giovanni inventa gli archibugieri a cavallo, e soprattutto sfrutta quello che esisteva già prima nel mondo orientale o comunque in contatto con l'oriente, cioè la cavalleria leggera, cavalli non bardati, quindi non appesantiti da una protezione, su cui stanno individui armati, però con una armatura a tre quarti, che cioè arriva solo al ginocchio, quindi lascia libere le gambe, e significa poter montare e smontare da sella con più agilità, e una volta eliminata quella che i cronachisti chiamano una celata alla borgognone, che noi oggi definiamo un elmetto, cioè una cosa che chiude completamente la testa, cosa non usuale con questi tipo di equipaggiamenti che finisce fino alle gambe, sono in grado di opporsi anche agli uomini d'arme.

Quindi possono fare, come si dice, da bosco e da riviera, tant'è che si narra come Giovanni con la lancia abbia passato da parte a parte un uomo d'arme, cosa, come tutti dicono, "meravigliosa", perché lui, cavallo leggero, non doveva essere teoricamente in condizioni di effettuare una prodezza di questo genere.

Il fatto stesso di considerare personaggi di estrazione economica se volete più bassi, più mercenari, o comunque addirittura di culture diverse dalla nostra, perché nella fattispecie si parla di albanesi, o di altri personaggi che vengono dai territori del levante Veneto, è un modo di proporre una struttura che è si, funzionale esclusivamente a quella che è la parte diciamo bellica della vita, ma anche dimostra una certa apertura mentale, nei confronti di un mondo che evidentemente sente modificarsi. Non è più il cavaliere feudale che domina tutto, è la possibilità e l'intelligenza del muoversi, se volete è un po’ il messaggio del Valentino, che pensa di potere creare uno stato con la sua capacità, ed è il messaggio del Machiavelli, cioè quello di poter usare strumenti diversi da quelli per così dire ereditari. Ora credo che chi mi seguirà in questa chiacchierata potrà chiarire benissimo che questo non era del tutto estraneo alla cultura medioevale, che anzi la società medioevale prevedeva una possibilità osmotica tra le varie classi sociali assai maggiore di quelle dei periodi che sono venuti più tardi, però è singolare che questo personaggio senta questa possibilità. In questo senso probabilmente Giovanni dalle Bande Nere è personaggio piuttosto moderno e forse, inteso in questo senso, può ancora essere interessante, non è solo un'irruenza giovanile la sua, è anche la capacità di cogliere quello che è essenziale, nella situazione. Questo impeto, che per esempio dimostra nelle azioni, per cui parte sul cavallo dei pantaloni, come si potrebbe dire addirittura in qualche caso, quindi senza armarsi, e prende una torre, una città per i suoi emissari, per i suoi padroni, perché di fatto viene pagato, gli garantisce un credito che altri comandanti più anziani di lui al momento non hanno, arriva addirittura a comandare 10 mila fanti e novecento cavalli, che è un'enormità, è circa un decimo dell'esercito imperiale, il che come capite, lo pone sul piano dei personaggi che in quel momento hanno venti, trent'anni più di lui come esperienza e che in qualche caso, proprio per l'esperienza, si trovano trattenuti dall'esercitare questi tipi di operazioni. Sul campo di battaglia questo è apprezzato, e sarà apprezzato, e sarà poi la base di un certo comportamento sociale in contesti diversi da quello italiano, per questioni di altro genere, per esempio per l'aspetto mercantile sul mare dell'Olanda, dell'Inghilterra e così via. Noi sappiamo benissimo che l'Italia cede il testimone, per quello che riguarda i commerci, non solo perché, e questa è naturalmente la ragione determinante, si trova tagliata via rispetto alle grandi arterie di comunicazione navale, ma anche perché di fatto non si sa sfruttare quella che è la capacità, fra virgolette, imprenditoriale delle giovani menti italiane. Non per nulla, l'America è scoperta da Colombo con delle navi non italiane, quindi c'è nella frammentazione della penisola italiana in quel momento da ricercare forse delle ragioni per questa emarginazione della penisola stessa, tant'è che i biografi di Giovanni dalle Bande Nere ne fanno un simbolo: perso Giovanni dalle Bande Nere, perse le speranze d'Italia, persa l'irruenza di un giovane di ventott'anni, crollate contemporaneamente le ambizioni di unificazione, se non altro sociale, di questa nazione, presa immediatamente perché, così dicono i biografi, per volontà di Dio, presa dall'imperatore, dal Cesare, da Carlo V che costituisce uno status quo nel quale a malapena poi le varie dinastie si muovono. Questo può giustificare anche il monumento che abbiamo nella piazza di San Lorenzo, noi sappiamo, e questo studio è recente, che questo monumento era pensato da principio per una cappella, quindi sappiamo, che la parte posteriore, dove ora si trova la scritta, probabilmente non era da vedersi, e questo spiega anche la positura del personaggio. L'esempio è naturalmente la coppia dei duci, che si trova qui in San Lorenzo, non v'è dubbio su questo, che poi il troncone della lancia avesse un senso, un altro, un altro modo di presentarsi e così via, questo tutto sommato rientra diciamo in quegli specialismi di cui dicevamo. Indubbiamente Cosimo sente che il padre ha significato molto, non solo per lui, tant'è che è di dimensioni più grandi degli altri duci, chiaramente lui è l'iniziatore della dinastia da cui Cosimo viene e quindi lo si pensa a scala fisicamente maggiore, d'altra parte la statuaria classica lo insegna, la dimensione cesarea è più grande del vero, questo vale anche per la statuaria che riprende le divinità, quindi niente di nuovo. Però, il fatto di iniziare da lui, probabilmente in una cappella di San Lorenzo, una nuova linea, gli dà, per così dire il mordente, per presentarsi egli stesso, in termini analoghi, cioè di grande innovatore; questo vorrebbe essere Cosimo.

Non è un caso, credo, che il primo ritratto ufficiale di Cosimo, realizzato dal Bronzino che immagino tutti conosciate perché lo presenta con l'armatura e con la borgognotta in mano, lo presenta con un armamento da cavallo leggero, quindi, come un giovane che "conduce", come aveva fatto il padre; qualche cosa di più elastico, di più strutturato, di più dinamico, di più moderno, di quella che era la tradizionale milizia che si usava sui campi di battaglia.

Questo, per i contemporanei, io credo fosse un messaggio molto chiaro, come poi questi tipi iconografici, e come potesse filtrare l'informazione attraverso tutti questi dettagli visivi è una storia che va ancora in larga misura scritta. Noi abbiamo dei grandi esempi qui a Firenze, abbiamo l'armeria medicea che è la più grande del mondo, che ha subito tutta una serie di strutturazioni il cui messaggio per i visitatori era eccellente. Pensate, era agli Uffizi, dove adesso ci sono le salette che congiungono la Tribuna al Gabinetto di Madama, quindi era in realtà la galleria: una galleria dinastica che mostrava i rapporti sociali, politici, le intenzioni del Granduca, e ciascuno dei Granduchi l'ha ristrutturata, l'ha modificata ed ha evidenziato altre cose, rapporti una volta con la Francia, una volta con la Germania, una volta con l'Austria e così via, e tutti i viaggiatori di un certo spicco che passavano da Firenze ne traevano memoria, questo per lo meno fino alla fine del '700.

Io qui mi fermo, lascio la parola ad altri che meglio di me vi chiariranno questi aspetti di tipo storico e architettonico legati all'iconografia. Ancora con una piccola notazione: Giovanni dalle Bande Nere muore a 28 anni, ancora prima dell'età in cui morì Alessandro Magno; questo lo rende mitico anche agli occhi dei contemporanei, perché l'aver guadagnato così grande stima in quel momento da poter essere uno dei pochissimi comandanti, dei primi quattro di un esercito che è quello dell'imperatore, lo pone evidentemente in un aura che oggi noi non siamo in grado di apprezzare appieno: questa gente spadroneggiava in Italia come voleva, non c'era castello che potesse resistere a un assedio, o comunque a una presa diretta di un esercito imperiale. Ecco, credo che questo vada un po’ recuperato, i libri di storia sono scritti con grande raziocinio e su una storia che è passata, l'impatto sui contemporanei di questa figura dev'essere stato invece abbastanza concreto, direi micidiale, quasi mitico; non a caso i suoi nemici lo chiamavano "il gran diavolo".

 Professor Ugo Barlozzetti

Lo scenario della metà del Quattrocento è fondamentalmente diverso da quello che troviamo nel primo quarto del Sedicesimo secolo. Inanzitutto c'è stato quel fatto straordinario del 1494, la calata di Carlo VIII che sposta indubitabilmente quell'equilibrio che era stato faticosamente raggiunto e non determinato con la pace di Lodi del 1454, certo è che il sangue sforzesco pesò molto nelle tensioni e nelle ricerche dello stesso Giovanni, dell'acquisizione di un suo spazio. Il tentativo ci fu: il caso di Aulla, che poi rivendette. E poi il tentativo di avere, e per questo si disgustò diverse volte nei confronti dei diversi signori di cui fu al servizio, sia i familiari, Leone X, sia Francesco I e Carlo V, di avere un punto di riferimento per la propria famiglia. Questo fu un punto importante perché tra l'altro bisogna ricordare che Medici era, ma di un ramo diverso da quello che aveva governato Firenze fino al 1494 e che era tornato al potere sulle picche spagnole nel 1512, quindi, era un ramo particolare, anzi, era un ramo che si differenziava moltissimo perché attraverso suo padre, Giovanni il Popolano, aveva conosciuto il valore della Repubblica. Il quale durante un'ambasceria, fun inviato proprio in quel del territorio che dominava Caterina Sforza, moglie di un Riario, collegato con quel Sisto IV che aveva organizzato la congiura dei Pazzi.

Quindi, i rapporti tra i Riario e i Medici non erano dei migliori, anche se trovarono il modo di tornare ad una convivenza. Comunque, un modo per avere territori era quello di essere parenti dei papi, e lo seppero bene i signori d'Urbino contro i quali appunto i Medici fecero una guerra, che fu la prima guerra nella quale si distinse il giovane Giovanni dalle Bande Nere. È un fatto importante, perché ci fa capire un po’ il meccanismo, questo durerà fino al tempo dei Farnese, i quali si ritagliarono ai tempi di Paolo III, tra Parma e Piacenza, uno stato, ma era quello l'unico modo, o almeno il più significativo, ben più importante ormai di essere un condottiero.

Un dato però che dobbiamo sottolineare nel rapporto tra le condotte o meglio nel modo di condurre la guerra e quello che stava avvenendo in quegli anni, è proprio il senso di profondo rinnovamento, tant'è vero che oggi si parla, da parte degli storici, di "rivoluzione militare", fatto che connota la coincidenza tra le grandi scoperte geografiche e l'avvio di un modo di pensare diverso, e le vicende legate alla riforma ne sono un'altra spia, proprio questa discontinuità col periodo precedente. Abbiamo, purtroppo anche per la guerra d'Urbino poche sono le analisi moderne, ancora il tradizionale lavoro, sistematico, del Pieri, sulla crisi militare del Rinascimento, che ci ripropone proprio come elemento centrale della vicenda italiana il rapporto "politica-innovazione militare-trasformazioni militari", trasformazioni che si concludono proprio negli anni che videro protagonista Giovanni dalle Bande Nere, e in questo percorso noi dobbiamo anche meglio inserire quelle trasformazioni, perché in Italia, in quegli anni, veramente si maturò un cambiamento determinante dal punto di vista della prassi guerresca e degli ordinamenti militari, perché se da una parte c'è la nascita di un nuovo sistema difensivo, un nuovo rapporto con le artiglierie, nasce proprio qui in Italia e nasce soprattutto per le necessità di una piccola realtà come il Ducato d'Urbino, il sistema delle nuove fortificazioni che si avvia con Francesco Di Giorgio Martini ma che trova tutt'un'altra serie poi di approfondimenti, di rinnovamenti, di adeguamenti, la fortificazione alla moderna, saranno quelli che faranno concretamente vedere il rapporto anche con la storia del territorio e le necessità nuove della prassi guerresca. Vediamo, oltre a questo, il senso di quel grande scontro che un po’ matura quello che si era intravisto con le guerre Burgundiche, proprio negli anni della congiura dei Pazzi, fra il 1477 e 1478; i quadrati di picche svizzere andando all'attacco ribaltano il rapporto tradizionale con la cavalleria e per la prima volta la fanteria appiedata, armata di picche, sconfigge la più orgogliosa cavalleria del mondo, quella di Carlo il Temerario, duca di Borgogna o duca d'Occidente, come veniva chiamato. La trasformazione è il ribaltamento delle tecniche e della prassi guerresca seguita fino ad allora, e quando Carlo V viene con artiglierie e "le genderme", la cavalleria pesante, i picchieri, sembrava assolutamente invincibile, ma ben presto quello che era maturato nell'ambito della dottrina guerresca italiana, la più avanzata di tutti i tempi, porterà ad una serie di adeguamenti per cui anche in quegli anni, elementi importanti di trasformazioni saranno recepiti. Questo, al di là della visione tradizionale di questa arretratezza italiana, e di questa incapacità italiana ad adeguarsi all'avversario. Prescindiamo da tante altre considerazioni ma vediamo le grandi battaglie, da Fornovo, dove praticamente per una disgregazione essenzialmente politica collegata ad un'incapacità di comando effettiva, ma qui non scendiamo nei particolari, ci sfugge una vittoria determinante, e ormai evidente. Per quanto riguarda l'uso della cavalleria leggera saranno proprio i Veneziani, attraverso gli Istradiotti, a introdurla, e durerà praticamente fino alle guerre civili di religione in Francia, quando appariranno anche nuovi elementi. Ma per quanto riguarda i grandi eventi, il film dei grandi eventi, delle grandi battaglie di quegli anni, appunto combattute in Italia, vedremo i grandi fatti di Cerignola nel 1503, dove l'arma da fuoco effettivamente non è più soltanto determinante ma è elemento centrale anche nella battaglia campale il ruolo dei tiratori. È un inizio, vedremo in seguito successivi grandi scontri, citiamo Agnadello, soltanto per infierire contro Papa Giulio II, che nel momento in cui i Turchi stavano premendo di nuovo sull'Europa, decise di scagliare l'Europa contro l'unica grande potenza marinara di quegli anni che era Venezia, e se ne pagheranno le conseguenze, perché pochi anni dopo, dal 1522, viene presa Rodi. Nel 1526 c'è la battaglia di Moax, nel 1529 Vienna è assediata dal Turco. Prescindiamo però da questo elemento e torniamo invece al senso della battaglia del 1512, la battaglia di Ravenna, nella quale le artiglierie hanno un ruolo importante anche a livello campale, e arriviamo alla battaglia di Novara, dove i quadrati Svizzeri vincono una prima volta, e arriviamo alla battaglia del 1515 a Marignano, dove contro gli Svizzeri si vedono i Lanzi al servizio di Francesco I. Una grande battaglia, una grande vittoria, sembra che si sia trovata una sorta di equilibrio, sono gli anni in cui emerge anche Giovanni dalle Bande Nere, che non avrà modo di inserirsi in queste grandi compagnie e vedrà invece la capacità di utilizzare la cavalleria leggera e l'elemento nuovo, costituito dagli archibugieri, e noi vedremo che questa componente degli archibugeri sarà un elemento quasi emblematico perché moriranno di colpi d'archibugio molti dei più importanti capitani di guerra di questi anni, compreso lo stesso Giovanni, che cadrà colpito da un falconetto, badate bene, ferrarese, perché il duca di Ferrara provvide i Lanzi che calavano giù, ormai in grande disordine. In qualche modo Carlo di Borbone li teneva a bada, e morirà anche lui di un colpo d'archibugio sotto le mura di Roma, come lo stesso Filiberto d'Orange alla battaglia di Gavinana, sembra però da qualche archibugiere prezzolato da Papa Clemente VII, perché il buon Filiberto d'Orange sembrava che aspirasse a un dominio in quel d'Arezzo. Ma questo è un elemento specifico della grande guerra di Toscana, dove emerse, lo possiamo dire chiaro e forte, anche il senso e l'esperienza maturata dal confronto con Giovanni dalle Bande Nere, perché le Bande Nere, dopo Giovanni, continuarono a combattere, questa volta per la libertà di Firenze, e Francesco Ferrucci, è bene ricordarlo, Francesco Ferrucci partecipò alla spedizione che la repubblica di Firenze fece contro Napoli nel 1528, appoggiandosi soprattutto alle Bande Nere, venne catturato e si riscattò, ma questo è un altro discorso.

E se Giovanni fosse stato vivo durante l'assedio di Firenze? È difficle fare delle ipotesi; non si può dire perché i grandi comandanti dell'assedio, si ricordava Ivo Biliotti detto "lo straccaguerra", si potrebbe citare il Montàuto, erano tutti comandanti maturati nell'ambiente di Giovanni, e la stessa tecnica di Francesco Ferrucci, questo colpire rapidamente attraverso reparti di cavalleria, con forte componente di archibugieri, è un elemento tipico ed emblematico della condotta di guerra di Giovanni, e possiamo dire che diventa anche un'esperienza, che Piero Strozzi recupererà, e che in parte diffonderà nell'Europa successiva. Quindi, c'è un rapporto stretto tra questo adeguarsi alla necessità di non poter avere i grandi quadrati di picche Svizzere o Lanzi, perché gli Italiani non riuscirono a esprimere una fanteria di questo tipo, anche se ottime erano le fanterie Romagnole. Però, non riuscirono lo stesso ad esprimere questa sostanza dei quadrati dei picchieri, tanto è vero che con Francesco Maria Della Rovere, lo sciagurato cui si deve la catastrofe del 1526 e del 1527, si verifica l'incapacità di bloccare la calata dei 12 mila Lanzi, Saccomanni e Italiani che poi presero Roma, e questo si deve proprio alla sua mancanza di volontà e di capacità di organizzare e di adeguare un esercito che non aveva 20 mila picchieri svizzeri per frenare questa orda di 12 mila uomini, massa disordinata che riuscì a prendere Roma. Anche perché il Papa Clemente VII, tentando di fare un'azione autonoma nei confronti di Napoli, perse questo scontro e firmò una tregua, e per far capire al governatore di Napoli, che lui era ben deciso a rispettare la tregua, cominciò a licenziare le proprie truppe. Quindi a Roma, quando si affacciano nel maggio del 1527, non più bloccati da Giovanni, le orde ormai neppure più di Frunzberg, che aveva avuto un colpo apoplettico proprio in quel di Ferrara cercando di placarli per le vie delle paghe, Clemente non aveva truppe, non aveva la possibilità di bloccarle, e c'è una cosa che volevo dire a proposito di questo, una biografia di Giovanni dalle Bande Nere, in cui si glissa molto sugli eventi immediatamente successivi alla morte di Giovanni, quando non si precisa quello che avvenne il 26 aprile 1527 a Firenze, un fatto che si ricollega molto agli eventi della Repubblica.

Firenze il 26 aprile del 1527 insorge, caccia i Medici, e vuole di nuovo la milizia comunale; Francesco Maria della Rovere, che con il suo esercito doveva stare attento a quest'orda di mercenari che stava calando da Pieve S.Stefano in giù, non si sapeva se verso Roma, si muove invece verso Firenze, e blocca questo primo soprassalto di recupero, di volontà, di libertà. Ma in base al rapporto con l'antica milizia, sarà poi nel 1528 Donato Giannotti a dar vita non soltanto alla milizia comunale, ma anche a dare, diciamo la possibilità a Francesco Ferrucci di esprimere la sua capacità di comandante militare. Quegli anni, per tornare a Giovanni dalle Bande Nere, quegli anni di guerre di Lombardia, lo videro protagonista, soprattutto attraverso la sua capacità di organizzare colpi di mano, e organizzare una milizia nuova dal punto di vista della disciplina e dell'igiene. Questo è un fatto forse un po’ leggendario, ma viene rimarcato, non tollerava che i suoi avessero i capelli lunghi, e dovevano essere puliti e ubbidienti; in questo c'e un legame anche con quella che fu la severità di Francesco Ferrucci, persona che non esitava a passare a fil di spada chi era indisciplinato o faceva saccheggio senza il consenso del comandante, perché il saccheggio era ritenuto anche un'opera di terrorismo, e quindi un'opera legata alla guerra psicologica.

Volevo accennare, e concludere così il mio intervento, a proposito delle grandi trasformazioni di questi anni legati alla figura di Giovanni dalle Bande Nere e del suo uso della cavalleria leggera, il suo uso degli archibugieri. Proprio in quegli anni avvenne un fatto che determinerà il percorso di quella che è stata chiamata "la rivoluzione militare" e che durerà, con una serie di complesse trasformazioni, per tutto un secolo. Mi riferisco alla battaglia di Romagnano-Sesia, nella quale gli ordinamenti e l'organizzazione dei tiratori non sarà più generica, ma sarà disciplinata su righe, in funzione della distanza, e quindi della capacità di colpire da parte degli archibugi che stanno diventando moschetti, arma più pesante, più efficace, capace di penetrare l'avversario avanzante: in questo caso i picchieri Svizzeri, che normalmente riuscivano di corsa a superare quest'area di crisi, subendo solo due o tre salve, in quella battaglia subirono sei, sette, otto, nove salve successive che determinarono la loro definitiva crisi. Non solo, ma cadde in quella battaglia anche Baiardo, colpito proprio da un colpo d'archibugio. Il Baiardo, che rappresentava il cavaliere senza macchia e senza paura, riporta a quello che le ottave dell'Ariosto ricordano per quanto riguarda l'episodio di Cimosco, e in effetti l'Ariosto colse il senso dell'innovazione. È soltanto in questi anni che si vede l'efficacia dell'arma da fuoco anche come arma capace di intervenire in maniera campale, e si avvia quel nuovo rapporto picca-arma da fuoco, che ci fa anche capire come si vada verso un esercito macchina, dove l'elemento della razionalità, del rapporto della disposizione sul campo dei combattenti è collegato anche con l'ottimizzazione degli strumenti che la tecnica metteva a disposizione. Accanto a questo, possiamo vedere che Giovanni dalle Bande Nere ha utilizzato al meglio anche la capacità dell'uso dell'ordine aperto, attraverso l'intelligenza di utilizzare la cavalleria leggera insieme agli archibugieri; quando muore si era lanciato a bloccare un guado soltanto con 400 cavalleggeri, che in groppa si portavano 400 archibugieri, e riuscì a bloccarli, fino a quando il duca di Ferrara non rifornì questa massa di Lanzi di dodici falconetti e di barche.

Vedete quindi che la crisi fondamentale che vive l'Italia di quegli anni è soprattutto una crisi dove l'elemento militare è collegato al tema della situazione politica interna. Auspico un serio approfondimento su questo tema generale, perché troppo facilmente si definisce questo periodo come un periodo dove è la scienza militare, sono gli ordinamenti militari, in crisi. Analizziamoli più da vicino, guardiamo più da vicino cosa fecero anche i nostri condottieri nella seconda parte del Cinquecento e del Seicento; ricordiamoci che la grande "Invencible Armada" fu organizzata per dar modo a un condottiero italiano, Alessandro Farnese, di andare a punire Elisabetta d'Inghilterra.

Professor Francesco Gurrieri

L'epigrafe dettata dal Bovio, che fu profetica, recita: "Il Giovanni de' Medici è qui posto, duce di supremo valore, il quale colpito verso il Mincio fece crollare più coi suoi i fati d'Italia." Era il 30 novembre del 1526, cinque giorni prima era stato colpito da una palla di due libbre sparata da un falconetto, e se n'andava così quello che io definirei il Rommel del Cinquecento, l'invincibile uomo delle fanterie, il condottiero che secondo l'Aretino fu sempre il primo a montare a cavallo e l'ultimo a scendere; se ne andava il capitano di ventura che gridava "venitemi indietro e non andatemi innanzi", figlio appunto di Giovanni il Popolano, del ramo parallelo di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, marito di Caterina Sforza.

Giovanni dalle Bande Nere sarà il padre, è stato ricordato, di Cosimo I, duca e poi granduca della nostra Toscana, che poi farà grande la presenza dei Medici in Europa. Scriverà lo Young, che la vita di Giovanni dalle Bande Nere, l'unico soldato della famiglia dei Medici, ci rianima come un soffio di vento ristoratore venuto a purificare quell'atmosfera di diplomazia, di scaltrezza e di ignobili maneggi che segna il tempo di Leone X, di Clemente VII, di Francesco I e di Carlo V, durante il quale egli visse la sua breve esistenza, un'esistenza appunto di soli 28 anni, pochi, pochi ma sufficienti a far scrivere di lui nello stesso secolo, Pietro Aretino, il Tedaldi, il Massi, il Machiavelli, il Guicciardini e altri ancora. Nel 1964, quando Sergio Camerani, qualcuno lo ricorderà, allora direttore dell'Archivio di Stato, pubblicava la sua utile bibliografia medicea con ben 1488 titoli, Giovanni dalle Bande Nere ne sarà titolare di ben 34. Di questi titoli, dall'Allodoli al De Gubernati, dal Livi al Milanesi, Giovanni ha in qualche modo incuriosito per le sue gesta di invincibile. Quando, nel 1857, fu fatta la ricognizione delle tombe medicee, fu trovato Giovanni ancora chiuso nella sua armatura nera, con la gamba amputata, con la visiera dell'elmo abbassata, ma i suoi 28 anni furono intensamente vissuti; è sufficiente tracciarne un sintetico profilo per coglierne il ruolo di protagonista nello scacchiere del secondo e del terzo decennio del cinquecento, e del resto, non poche cose sono già state dette. Nessuno qui si offenderà se io qui ricordo qualche episodio della sua breve ma intensa vita e biografia, a cominciare dal rapporto con la madre. La morte di Caterina, con una preoccupazione circa l'educazione di questo ragazzo, e quindi l'impegno della madre di consegnarlo a un sacerdote e ad un fattore, fattore della villa del Trebbio, il Vieni, dove Giovanni soggiorna quasi tre anni e dove comincia a formarsi il suo carattere, manifestando subito in molti modi il suo carattere a dir poco difficile. Iroso, litiga con i compagni continuamente, rissoso, quasi mai disposto a tollerare, a perdonare, ovviamente anche trasgressivo. Basta pensare che a soli 12 o 13 anni, si facesse trasportare in un bordello da amici un pochino più grandi. Nel 1512 è a Roma presso il Salviati, e sappiamo appunto come il rapporto col Salviati produrrà poi il matrimonio con la figlia Maria, e il suo rapporto col Papa, il primo Papa Mediceo, con Leone X, e i rapporti che a questo conseguono; io qui riprendo un passo del Rossi, che scrive testualmente che cedeva facilmente all'ira, che era di statura più che comune, testa grossa, e del resto, dal monumento che è nella piazza, a lungo tempo i fiorentini hanno continuato a chiamarlo "lo zuccone". Viso pieno, colorito e così via. Una cosa curiosa: non amava dormire solo, questo è anche comprensibile, però spesso, ma non pensate male, spesso dormiva con il suo compagno di viaggio preferito. Era proprio la necessità di avere, anche durante le ore di sonno, un possibile potenziale interlocutore. Le gesta furono numerose, è già stato detto delle Bande Nere, sono state dette molte cose; vi ricordo l'ammirazione sincera del Guicciardini, persona non certo facile a giudizi immediatamente positivi, e che interessò il Guicciardini che ne parlò con frasi e riflessioni come "se perdessimo lui perderemmo troppo". Sono state ricordate le gesta, i numeri di queste battaglie, di questi risultati ottenuti, è stato ricordato il colpo di falconetto, che gli rovinerà la gamba, e l'episodio che i suoi biografi non numerosi, ma che esaltano l'arditezza incredibile di quest'uomo, che da sveglio, tenendo in mano delle candele accese per fare luce al chirurgo, si fa segare la gamba, mentre altri scappano per l'insopportabilità dell'evento. Addirittura, il biografo dice che quando il chirurgo cominciò a segargli la gamba, l'Aretino, che era appunto il suo compagno di sempre, fuggì via e si tappò le orecchie per non sentire le grida.

Ma al di là di questi episodi, di alcuni momenti, biografici più significativi, io voglio anche dire come di Giovanni si ricomincia a parlare solo dopo la sua morte, solo e quando suo figlio Cosimo, arriva al potere, arriva a Palazzo Vecchio, e comincia la grande ristrutturazione del palazzo con tutto ciò che ne consegue. Cosimo, nasce nel 1519, quindi quando muore suo padre è un ragazzino, un bambino di 7 anni. Cosimo lo ricorderà sempre con profondo orgoglio, e vedremo come poi saprà tradurre questo orgoglio di figlio, il duca e poi granduca Cosimo, tanto che, è nel grande disegno, nella grande immaginazione, nel grande programma di Palazzo Vecchio, che Cosimo gli dedica una sala affidandone l'impianto narrativo, narrativo-celebrativo, al Bartoli e la realizzazione artistica, nientepopodimeno che al Vasari, il quale Vasari si avvarrà dei maggiori artisti del tempo, che erano personaggi di tutto rispetto che si chiamavano Stradano, si chiamavano Ghirlandaio, che si chiamavano Pontormo, Marchetti, Marco da Faenza. Insomma, questo sentimento filiale di Cosimo è veramente forte, è veramente potente, intenso, e accanto alla sala di Clemente VII, c'è appunto la sala intitolata a Giovanni dalle Bande Nere, che ha un impianto con una volta un po’ a cielo di carrozza, ripartita, dove ci sono ritratti, dove ci sono numerose figure allegoriche, ci sono fatti d'arme. Gli elementi simbolici, iconologici, che caratterizzano questa sala di Giovanni dalle Bande Nere in Palazzo Vecchio, sono l'animosità, Ercole e il leone, la forza, Ercole che scoppia Anteo, l'impeto, dirà il Vasari testualmente, "l'ho fatto", ovviamente riferendosi a Giovanni, "a uso di vento, il quale soffia con tant'impeto che donde passa rovini e fracassi", ed ancora sarà presente il furore, che si liberà dalle catene, saranno presenti le virtù militari, sarà presente la fortuna, sarà presente l'onore, vestito appunto all'antica romana con una verga in mano, sarà presente l'audacia, sarà presente la folgore, niente più forte di ciò, con la folgore, insomma, come vedete una intitolazione quasi da reggimenti di estrema modernità. Ma il vero omaggio resta quella che il Vasari definì la sepoltura del signor Giovanni, è anche divertente questo "Signor Giovanni", confidenziale. Ora, questa sepoltura del signor Giovanni è una sepoltura che fu commisionata da Cosimo nel maggio 1540, quindi sono passati 14 anni dalla morte di Giovanni dalle Bande Nere, ma Cosimo, non appena arriva al potere in Palazzo Vecchio, si preoccupa immediatamente di realizzare questo programma celebrativo, e questa logagione, del maggio 1540, è di duemila scudi, e doveva esser finita in due anni. Il sepolcro non fu mai terminato, il basamento servì a lungo tempo da fontana in piazza San Lorenzo, e la statua che ora vediamo ricollocata, riassemblata, sopra al basamento fu portata in Palazzo Vecchio, e rimase in Palazzo Vecchio fino alla metà del secolo scorso, ancora in periodo Granducale, quello Lorenese, e solo nel 1851 fu definitivamente rimessa sulla base, e il Milanesi, che voi sapete essere stato il maggiore più raffinato commentatore del Vasari, ricorda, un arguto epigramma composto in quella occasione che dice testualmente: "Messer Giovanni dalle Bande Nere, da lungo cavalcar noiato e stanco, scese di sella e si pose a sedere", che secondo me è molto bellino.

E ora veniamo all'autore, veniamo a questo simpatico, grandissimo scultore, autore, che è Baccio Bandinelli, che non poteva non essere prigioniero dalla primazia di Michelangelo, e quindi dall'assoluzione che Michelangelo aveva dato con i Medici nella sistemazione dei sarcofagi nella sacrestia vecchia, perciò questo "noiato" e "stanco", che scese di sella e si pose a sedere, mi pare abbastanza divertente. Ora, la trattazione di questo monumento è nella vita di Baccio Bandinelli, e lo dobbiamo ricordare, perché Baccio Bandinelli è uno dei più grandi scultori fiorentini del '500, e quando ha l'incarico da Cosimo è nel fiore della sua maturità professionale. D'altra parte Baccio, lo ricordo, fu chiamato poi, più tardi, ad uno degli incarichi più prestigiosi di Firenze, cioè la risistemazione del coro, che poi si aggettiva per la presenza del Bandinelli, del coro Bandinelliano del Duomo, che sta esattamente sotto la cupola, dunque Baccio, che si forma alla scuola del padre che era un orafo, questo Michelagnole da Gaiole, e anche a quella del Rustici, è un artista, uno scultore che in qualche modo, sinteticamente detto, in qualche modo oscilla tra una sorta di pittoricismo, e un'eleganza diffusa che aveva mediato e assunto da Andrea del Sarto nella pittura, ma prigioniero della presenza totalizzante, appunto di Michelangelo. Tuttavia Bandinelli sarà scultore di grande abilità, la copia nella creatività, nessuno si offenda se io mi permetto di ricordare che proprio a Bandinelli si deve la copia del Laocoonte che oggi è agli Uffizi, e appunto, questo impegno, questa qualità, questo affidamento al Bandinelli per una copia del Laocoonte è, credo, la prova provata della stima che in palazzo si aveva di questo grande scultore. E questa copia del Laocoonte, che c'entra, marginalmente ma c'entra con il nostro monumento, e vedremo perché, nasce onorare un apprezzamento, che veniva appunto dal Cardinal Dovizi, per una captatio benevolentiae di carattere politico. Bandinelli fa questa copia, viene da qualcuno criticato, ma in definitiva abbiamo questa prova di grande abilità; il Laocoonte è, credo, una delle statue, una delle realizzazioni più complesse che la cultura plastica abbia mai in qualche modo affrontato, e di questa bontà della copia fu detto che non si rivelava differenza alcuna, fra l'originale e la copia bandinelliana. Bandinelli aveva scolpito poco prima, e quindi aveva costruito i suoi titoli per avere l'incarico della statua di Giovanni dalle Bande Nere, l'Ercole e Caco per Palazzo Vecchio; l'aveva fatto esattamente sei anni prima, nel 1534. Nel 1540 avrà questo incarico, prima di avere quello, ancor più prestigioso, della sistemazione del coro Bandinelliano che gli sarà smontato in maniera perfida nell'Ottocento, e raccolto poi più o meno erraticamente nell'attuale sistemazione museale, nel Museo dell'Opera del Duomo.

Un monumento non molto amato dalla critica, questo va detto, perché se è vero, di un'incursione critica recentissima, questo monumento non era in definitiva poi stato molto studiato, non era stata studiata la figura di Giovanni dalle Bande Nere, non era soprattutto stato studiato il linguaggio e tutta la carica metaforica che ha il basamento nella sua redazione architettonica, che ha nella sua redazione plastica. Io invece credo che si possa tranquillamente affermare che questo monumento a Giovanni dalle Bande Nere sia un monumento di passaggio della cultura artistica del Cinquecento di estrema importanza. Il basamento, ridotto in sostanza rozzamente ai suoi termini essenziali, è un parallelepipedo a base rettangolare e ha sui fianchi, sui lati corti, ha l'arme medicea, sui lati lunghi, da un parte, diciamo nell'angolo verso palazzo Medici, ha l'epigrafe messa in opera appunto quando fu rimontato. Sull'altro lato lungo abbiamo invece un pannello di estrema importanza, tanto classico nell'impianto basamentale, quanto trasgressivo nella figura seduta e pensante del condottiero.

Ora, prima di questo ultimissimo studio, abbiamo avuto anche amici e colleghi specialisti di scultura, che hanno commentato questo monumento, soprattutto la formella del basamento, con apprezzamento, ma rimandandolo direttamente alla cultura manieristica. È stato ricordato come la destinazione originaria era in una cappella, e voi capite bene come in una cappella, c'è un fronte principale libero, che è quello assiale, ci sono ancora i fianchi che si vedono, ma c'è la parte tergale, a cui in genere, soprattutto nella scultura, si pone meno attenzione, così infatti è per la statua di Giovanni.

Va notata l'attenzione data alla redazione architettonica del basamento, con temi che vengono dal mondo classico e che erano stati ripresi fin dal primo umanesimo, dal primo Quattrocento, la nobiltà del vestimento da antico romano, che dà e deve dare programmaticamente quell'idea di grandezza di cui è già stato detto. Negli elementi basamentali, si nota questo linguaggio decisamente colto, decisamente classicheggiante, lo si legge anche nell'impianto classico dorico, dove riappare il triglifo, riappare la metopa tra i triglifi, riappare l'elemento delle gocciole, forse un po’ sovrabbondanti rispetto all'elemento, e c'è questa trasgressione, sì manieristica, però assolutamente personale.

Non c'è pausa plastica anche nell'assemblaggio dei pezzi, non siamo di fronte a un monolito unico, è assolutamente curato, le colonne d'angolo sono colonne con capitelli particolarissimi, e squisitamente trasgressivi, anche rispetto al tardo capitello classico della fine del Quattrocento, un Sangallo sarebbe rabbrividito rispetto a questa soluzione. Dove riappare una sorta di baccellatura nell'echino, e dove la rosetta che è presente nei capitelli corinzi compositi di fine secolo, qui invece appare iterata e diventa protagonista dell'elemento. Insomma, una trasgressione ed una personalizzazione di Baccio che è un po’ scultore, ma, in questo caso è anche un po’ architetto. L'intradosso del getto del basamento è curato con piccoli lacunari che sono elementi ancora di linguaggio classico, tradizionale, una base di questo monumento che è una vera, autonoma architettura.

È evidente quanto ci riconduca al linguaggio del sarcofago romano, del resto già rilevato da chi ha appena approfondito un po’ questo tema, ma insomma, è il mio parere, che Cosimo, il figlio, abbia voluto immortalare il padre in una sorta di iconografia metastorica, quella appunto della classicità romana, e ci riesce, ci riesce perché lo propone come il più grande condottiero del XVI° secolo, lo stratega e il tattico, il trasgressivo e l'anti-conformista, che appunto, solo la cultura di fine secolo avrebbe comunemente accettato, e che si colloca da un punto di vista del comportamento e della cultura militare, fra due tipologie di fortezza, che noi abbiamo molto vicine a Firenze, e cioè fra Giuliano da Sangallo, che voi sapete è il primo sperimentatore della fortezza rinascimentale di Poggio Bonizio, cioè di Poggibonsi, perché il primo quadilatero costruito secondo le modalità rinascimentali, e la fortezza che Antonio da Sangallo il giovane costruirà, cioè la Fortezza da Basso, che è già basata su ben altri principi, dove l'arma da fuoco è ormai trionfante, e dove i fronti non saranno più verticali, ma saranno inclinati, dove spariranno gli spigoli vivi, perché più fragili all'arma da fuoco e si introdurrà la geometria smussata e raccordata per far scivolare il proietto, e per attutire un po’ il colpo.

Io credo che si sia un po’ riusciti a riaffezionarci un po’ a questo personaggio, che non fu lì per lì tanto amato, e che dovrà aspettare l'impianto allegorico del figlio, di Cosimo, per ritrovarsi in questi due grandi eventi figurativi, la dedicazione di una sala in Palazzo Vecchio, e la dedicazione di un monumento che doveva stare in una cappella, ma che oggi possiamo godere riassemblato nella nostra piazza San Lorenzo.

 Professor Franco Cardini

Bene, siccome non so se è vero che repetita iuvant, sicuramente come dicevamo al liceo stufant, io cercherò di essere breve, perché poi mi incombe, per non so bene quale motivo perché non ho nessun merito, tra l'altro non sono un cinquecentista, sono uno studioso di storia militare di complemento, però mi incombe il compito di fare una sorta di orazione davanti al caro estinto, davanti alla lapide, alla base del caro estinto e naturalmente lì sarò forzatamente un pochino così, userò quei toni leggermente stentorei, leggermente ridicoli che si usano in questi casi, ma è fatale, ma è così che si fa insomma, sono un po’ le liturgie laiche che richiedono queste cose, e le liturgie laiche sono un succedaeno di quelle religiose ma non vengono mai tanto bene di solito, quindi mi limiterò ad un paio di osservazioni. Anch'io averi voluto portare un paio di diapositive, ma non l'ho fatto poi, così, perché non mi è riuscito far bene le fotografie, e via discorrendo, ma ve le descrivo perché tanto son tutte cose, credo che la stragrande maggioranza dei presenti sia fiorentina, quindi sono cose che conosciamo, e non sono così belle, io francamente poi che la base fosse più bella del monumento me ne ero vagamente accorto, per lo meno a me così sembrava, e continua a sembrare, non mi ero accorto troppo di questa qualità, debbo dire come sempre quando si ha qualcosa in casa e non la si guarda sufficientemente bene, io dalla base ci passo tutti i giorni, quindi anzi, di solito tendo ad associarla a immagini mozartiane, la statua del commendatore e via discorrendo, che fra l'altro non c'entra niente, sia ben chiaro, però, l'associazione mentale viene, se non altro la tragicità della morte di Giovanni, che non è minore di quella del commendatore nel I atto del Don Juan di Mozart. Le diapositive che avrei voluto portare sono quelle quattro, che a mio modesto e del tutto imcopetente avviso, brutte statue ottocentesche che stanno nella controfacciata del canocchiale, diciamo così, degli uffizi, dove la Firenze, alla ricerca di una sua identità nel quadro della più ampia identità italiana, ma convinta che in fondo, convinta allora che l'esser fiorentini volesse dire in un certo senso essere il massimo dell'italianità, questo è un discorso che evidentemente si può contestare, che è contestabilissimo, ma per molto tempo storiograficamente quello che è successo a Firenze è uno degli esiti un po’ di come è stata fatta l'unità d'Italia, quello che succedeva a Firenze, nei secoli d'oro diciamo così, tra il 200 e il '500, veniva considerato, senza dubbio a torto da un punto di vista obbiettivo, il modello della storia Italiana. Per esempio, non so, molti di noi, sono, compreso me, sono abbastanta non più giovanissimi tanto da ricordarsi che quando sui libri di scuola si voleva fare l'esempio di un comune medioevale si raccontava la storia di Firenze; il che era metodologicamente disastroso perché non è affatto vero che sia una tipologia comunale coerente per così dire, ogni comune ha la sua storia e il sud ha una storia nella quale le città sono tutta un'altra cosa rispetto al centro, ma se c'è un comune che non ha una storia tipica è proprio Firenze insomma, dove il passaggio a regime signorile avviene tardi e con caratteri e circostanze del tutto diverse dal resto etc., oggi forse si pecca nell'eccesso opposto, un manuale che in questi mesi è molto valutato, secondo me ha ragione il manuale pubblicato dalla casa editrice Donzelli ha un bellissimo saggio di un carissimo collega che è anche un amico, Enrico Artifoni dell'università di Torino, dove si parla dei comuni e delle signorie dove non nomina nemmeno Firenze, ecco forse, senza dubbio Artifoni non l'ha fatto apposta, non è un odio anti-fiorentino che l'ha spinto, anzi, è partito da una considerazione del tutto corretta, Firenze, all'interno di questa costellazione di atipicità, che è la storia comunale e signorile dei centri italici, è particolarmente atipica, ora, forse arrivare a espulgerla totalmente, a fare una storia della civiltà comunale, sia pure una storia ristretta in poche decine di pagine per un saggio per i liceali, non nominare mai il comune di Firenze può lasciare un pochino perplessi, questo per dire come effettivamente la storia cambia di continuo, non perché cambino i fatti, che sono avvenuti, i fatti sono avvenuti e sono lì e stanno fermi, però cambia il nostro modo di leggerli e cambiamo noi, cambia anche il nostro sottolineare il nostro tacere, il nostro censurare, il nostro esaltare e così cambia la nostra identità perchè noi nel nostro passato troviamo o cerchiamo uno specchio per capire che cosa siamo, ma nello stesso tempo questa immagine del passato ce la ritagliamo continuamente in modo diverso, ecco perché cambia anche l'immagine di Giovanni delle Bande Nere a seconda delle generazioni, senza dubbio cento anni fa, sessanta anni fa, anche quaranta o trenta o venti anni fa, noi avremmo fatto, avremmo potuto legittimamente fare commemorazioni della nascita di Giovanni delle Bande Nere ma c'avremmo versato, in questo stampo della commemorazione, parola un po’ retorica, antipatica, ma si fa per intendersi, dei contenuti del tutto diversi, e questo è tra l'altro il fascino della storia, ma ne costituisce evidentemente anche il pericolo. L'impressione che si ha sempre quando la si vede con spirito critico di posare un po’ i piedi su un terreno che si muove continuamente sotto, il che è verissimo, ma certamente non è rassicurante, d'altra parte l'alternativa è darsi a una storia oleografica che non corrisponde a nessuna realtà. Dicevo dunque, queste quattro brutte, e lo sottolineo, secondo me sono brutte, non perché sian mal fatte, ma semplicemente perché sono così, delle cartoline tridimensionali, dei ritratti ideali dei padri della patria, padri della patria scolpiti in un tempo in cui la patria fiorentina si considerava il modello e la quinta essenza, un po’ come la lingua fiorentina si considerava il modello e la quinta essenza della lingua nazionale italiana, così, la storia fiorentina si considerava il clou, il modello della storia nazionale italiana, non era così, in ordine cronologico di vita, i quattro padri della patria e le scelte erano ben pensate, naturalmente, erano evidentemente Farinata degli Uberti, Pier Capponi, Giovanni e Francesco Ferrucci, il che è tutto un programma, è un modo di ritagliare praticamente la storia fiorentina, evidentemente partendo da un eretico ghibellino, il che ha un significato preciso nel momento immediatamente post-risorgimentale, Farinata non c'entra nulla, evidentemente si sarebbe trovato piuttosto a disagio, se li avessero spiegato l'uso politico che della sua immagine, come di altre immagini di fiorentini, più o meno in servizio permanente effettivo o di complemento, si sarebbero fatti dopo, forse anche fra Girolamo Savonarola, forse lo stesso Dante si sarebbe trovato un pò perplesso, e sono stati cucinati come sapete in varie salse, proprio soprattutto nell'ottocento, quando della triade ,e non a caso, guarda caso ma non a caso, Dante, Savonarola, Giovanni si fa un uso politico molto pronunziato, del resto l'uso politico della storia fiorentina, non so, fate un giro intorno al mercato nuovo, o al porcellino, come diciamo noi, e vi accorgete dell'uso politico che addirittura Michele di Lando diventa una sorta di icone patriottica, ora, il pover'uomo non era un granchè come capo politico, è anche un personaggio abbastanza versipelle e trasformista, il trasformismo è un vecchi vizio di questo paese, non so di questa città, per cui no, non era certo un personaggio che meritasse in fondo una statua, ma però gliel'hanno fatta, gliel'hanno fatta con questo gesto, così nobile dell'offrirsi con la mano sul cuore. Giovanni de Medici naturalmente snuda la spada e via discorrendo. Ecco, sono immagini che poi restano, voi sapete che in piazza signoria, il divino popol di stato, come diceva l'immaginifico poeta, Gabriele D'annunzio, è tutt'altro che un popolo sereno, è un popolo che da buon popolo fiorentino litiga continuamente, i fiorentini dicono che quando suonano le campane delle chiese fiorentine è perché le campane litigano fra loro, anche le statue litigano, Davide che è cristiano e repubblicano litiga con Perseo, che invece è neo-pagano e granducale, e sono due eroi scicarnefici tutti e due, con la differenza che il Davide è carnefice del gigante Golia, gigante imperiale, almeno nelle intenzioni, poi nella realtà non è stato così, mentre invece Perseo taglia la testa della medusa che come sapete è anguitrinita, cioè ha dei serpenti in testa, i serpenti sono il simbolo della discordia, e da che mondo è mondo i tiranni chiamano la discordia la libertà. Il Perseo decapita in realtà la libertà del popolo fiorentino, che poi quella libertà fosse in realtà incarnata da famiglie nobili che tutto sommato riproveravano soprattutto ai medici di aver vinto loro la corsa al principato, a cominciare dagli strozzi, che avrebbero potuto anche vincerla loro, e nel primo quattrocento, gli Strozzi e gli Albizi ce l'avevano quasi fatta, poi non ce l'hanno fatta, beh insomma tutta questa fiera libertà repubblicana, quest'atteggiarsi a bruto in realtà era un pochino un perorare pro domo sua, era semplicemente gente che aveva perduto la corsa al potere e che si rifugiava in questi grandi ideali repubblicani, semplicemente perché non ce l'aveva fatta, però il dialogo, il dibattito, c'è, in fondo c'è un dibattito anche fra Giovanni delle Bande Nere e Francesco Ferrucci, non fra loro due ma fra l'uso che se ne è fatto, per cui Giovanni in fondo è rimasto il difensore di una patria che è in fondo la patria ricaduta in mano dei medici, i medici della seconda generazione che poi fra l'altro è la generazione più discussa, anche meno studiata forse, se si vuole, o perlomeno meno pubblicisticamente nota, ma è anche la generazione più discussa e discutibile questa generazione di questo periodo non felicissimo in fondo, che si apre con il sacco di Prato, il cardinal Giovanni, che poi diventerà il papa Leone X, il che si chiude appunto con, si può dire anche simbolicamente in questo momento, col sacrificio di Giovanni, mentre Francesco, personaggio non meno duro, non meno spietato di Giovanni, personaggio che forse anche lì indebitamente si è ridotto a cartolina, più o meno a santino laico, Francesco Ferrucci è invece il simbolo di un'altra Firenze, della Firenze repubblicana che in un modo o nell'altro ha raccolto il retaggio Savonaroliano, è il simbolo di un altro modo di cadere per una patria che è quella lì ma che tutto sommato è anche un'altra, ecco, tutte queste cose noi le viviamo continuamente come in una sorta di gioco di specchi, ed è un po’ inquietante dover pensare a come cambiano questi stereotipi, a come cambiano di significato, però ripeto, è l'alternativa faticosa, pedante, qualche volta difficile da cogliersi e difficile da comunicarsi, è l'alternativa alla storia pensata per grandi quadri edificanti e retorici che di solito non significa nulla quando diventa uno strumento di potere, perché solitamente la storia retorica per la retorica è dall'antichità che non la fa più nessuno anzi, veramente non la facevano neanche ai tempi antichi perché serviva esattamente a quello, serviva a forgiare i cittadini o a renderli funzionali ad un certo tipo di potere, quindi è possibile guardare con disincanto alla figura di Giovanni e su questo dedico due minuti di considerazione conclusiva, non conclusiva della serata, conclusivba di queste quattro considerazioni che faccio io. E' possibile farlo, lo faccio in questa sede perché fra pochi minuti poi dovrò assolvere giustamente un'altra funzione, alla funzione così piena di pietas con cui guardiamo agli antenati e allora fatalmente si diventa sempre un po’ paludati e un po’ meno, storicamente parlando, critici. Giovanni dè medici avrebbe potuto, siccome come tutti sanno la storia non solo si può fare, ma si deve fare al condizionale, Giovanni de Medici avrebbe potuto diventare anche forse un buon politico, non so se ne avesse la stoffa, 28 anni non erano pochissimi nel sedicesimo secolo, come appaiono pochissimi adesso, pochissimi per morire voglio dire, però erano già qualcosa,Giovanni non aveva avuto modo di presentare il suo valore di politico perché aveva presentato altre caratteristiche, altre qualità, Barlozzetti e Scalini ci hanno presentato molto bene quali fossero le caratteristiche di un grande professionista, è altrettanto importante forse, anche per capire l'evoluzione di Firenze sottolineare che un grande professionista della guerra, un grande e serio, lasciamo andare se più o meno ferocie o violento, non entriamo in queste pieghe caratteriali, che del resto percorrono un po’ tutta la storia dei Medici, soprattutto dei Medici della terza generazione, i Medici della generazione ducale, che è una generazione un po’ offuscata, da certe scene di violenza, penso a Lorenzaccio, penso a Don Garcia, penso a tutti i pasticciacci brutti, e funesti segreti di casa medici del sedicesimo secolo, ma anche nei secoli successivi c'è qualche cosa di questo genere, e ogni tanto viene fuori il sangue, il sangue dei tiranni di Romagna che ribolle nelle vene, ora, non so se si possa fare la storia così grossolanamente, a colpi di DNA, certamente però ecco, c'è un ammutamento in casa Medici, e questo mutamento è il risultato della grande politica in fondo dei Medici della prima generazione, questi mercanti che hanno voluto farsi principi, e avendo sempre l'accortezza di non darlo troppo a vedere, oddio, a un certo punto se ne erano accorti tutti, però loro continuavano a far finta di nulla. Lorenzo ci riusciva meno bene di Cosimo, ma lo faceva anche lui, alludo a Lorenzo il Magnifico naturalmente, i Medici poi, che sono tornati dopo il sacco di Prato l'hanno fatto sempre più di malavoglia, e si sono atteggiati sempre più a principi e questo è probabilmente la ragione, per cui tutto sommato, una delle ragioni per cui tutto sommato i fiorentini e non solo gli aristocratici delle famiglie a loro concorrenti, ma tutti i fiorentini, tutto sommato non gli hanno poi granchè amati, mentre poi i Medici duchi e Granduchi saranno semmai amati forse più in certe città, del ducato di Firenze, o addirittura del ducato di Siena, che non nella dominante, e questo è un altro degli aspetti molto caratteristici, forse il più lucido politico di casa medici di tutto il cinquecento, il cardinale e poi Granduca Ferdinando lo sapeva benissimo e lo diceva sempre, e usava dire "questa città non vi vuol bene", e aggiungere "e nemmeno noi a lei", il che era anche un po’ vero, nonstante poi l'ambiente in cui siamo farebbe pensare che questo era un po’ vero si, ma soltanto fino a un certo punto, perché poi c'era anche il consenso, e c'era anche l'amore dei padri e dei mecenati per la dominante etc. Ecco, è un po’ il sangue degli Sforza che con Giovanni entra in casa Medici. Giovanni non si è mai sentito legato a i Riario, cioè agli imparentati della madre dalla parte del primo letto della madre stessa, anzi, i Riario sono tra i nemici storici di casa Medici, sono probabilmente i Riario e i Della Rovere, anzi sono senza dubbio i Riario e i Della Rovere, che hanno armato la mano dei congiurati che hanno ucciso Giuliano, durante la congiura dei Pazzi, e via discorrendo, quindi, c'è anche un'animosità, è vero che Giovanni viene fuori da una famiglia di cadetti, violenze si fanno sempre ai morti, nella base che Gurrieri ci ha presentato con tanta rigorosa filologia, avrete visto ad un certo punto passare lo stemma di casa medici, la diapositiva non permetteva di leggerlo bene se non da vicino, io lo vedevo da qui, forse voi da là no, però forse qualcuno si sarà ricordato che quello stemma lì, Giovanni dalle Bande Nere non lo ha mai usato, e cioè lo stemma coronato dalla palla d'azzurro gigliata d'oro, che non era del ramo cadetto, che aveva invece una più modesta ma molto più cittadinamente parlando significativa, palla d'argento, crociata di rosso che era il segno del popolo, e per questo, i discendenti di Lorenzo, fratello di Cosimo il vecchio si chiamavano i popolani, e naturalmente quando il nipote di Giovanni il Popolano, il figlio di Giovanni delle Bande Nere diventa l'erede del ducato, immediatamente si riallaccia alla grande tradizione del ramo principale della famiglia e si dimentica, o finge di dimenticarsi, di essere invece un rampollo della famiglia cadetta, e questa è la naturale violenza che si fa ai propri antenati quando non sono considerati all'altezza della situazione, ma invece è importante che Giovanni fosse figlio dei Medici popolani o popoleschi, perché quel ramo lì è il ramo che la casa madre usa un po’ per le basse faccende domestiche, ma le basse faccende domestiche non sono più soltanto mercantili, non sono più bancarie ma sono anche invece, diplomatiche, politiche etc, e il fatto che Giovanni popolano, al di là del loro rapporto del trasporto, del loro rapporto erotico, sentimentale etc, sposi la figlia del duca di Milano, guardate poi qualche volta la coincidenza, la quale aveva visto morire il padre più o meno due anni prima della morte di Giuliano dè Medici, più o meno esattamente nello stesso modo, anche lui di pugnale, anche lui durante una congiura, e aveva visto poi morire il Riario a Forlì, in circostanze veramente orribili, veramente tragiche, quando poi la Caterina, caduta o volata nelle braccia di Giovanni, il loro rampollo in realtà poi ha portato il nome dei Medici, ma il nome che si è veramente portato dentro con più forza, con fierezza, è quello degli Sforza, sarebbe molto interessante, Scalini diceva, ed aveva perfettamente ragione, beh, ha servito tanti signori, sarebbe interessante, ed è un lavoro molto facile, che si può fare, credo che sia stato anche fatto, anche se direttamente io non l'ho visto che per scaglioni, diciamo così, fare una galleria, una mini mostra per esempio, delle armi araldiche usate da Giovanni, il quale poi, all'origine non si chiama Giovanni ma si chiama Ludovico, come Ludovico il Moro praticamente, e come i Ludovichi che governano sotto il nome di Luigi, lui che governa con la Francia, ed anche questo non è un segnale da poco, se facessimo una carrellata sugli stemmi, come diciamo noi volgarmente, sulle armi araldiche usate da Giovanni, vedremmo che lui alterna l'aquila dell'impero e il serpente dei Visconti e poi degli Sforza, alle armi pontificie, alle armi francesi e così via, a seconda dei casi, servendosi però sempre di un riderimento di ascendenza, parlando sempre del sangue che gli scorre nelle vene, per così dire, ma giocando su questi vari aspetti. E' forse questo l'aspetto più significativo di Giovanni, un grande tecnico militare, un geniale tecnico militare, ma è anche l'uomo che rappresenta, al di là del suo stesso valore, il mutamento all'interno della casa dei Medici e della qualità, per così dire, della signoria dei Medici che sta sempre più diventando principato, e il fatto che l'alleanza tradizionale dal tempo di Cosimo, dei rapporti fra Cosimo il vecchio e Francesco Sforza, il rapporto con Milano non si è mai del tutto interrotto e non è mai stato tradito fino appunto a quello snodo tragico del primo cinquecento, quando tutte le carte volano per aria, vengono scompigliate e bisogna ricomporle, però questa tradizione resta e per la casa dei Medici legarsi agli Sforza, badate non una casa di antiche origini, erano i Visconti la casa d'antiche origini, una casa anche lei che si era fatta dal nulla, ma si era fatta dal nulla attraverso le armi, non attraverso la mercatura, alla fine del secolo legarsi con gli Sforza significava veramente entrare, per così dire, attraverso la porta principale, per la via maestra, nel novero delle grandi case principesche d'Italia, questo è un dato importante, l'altro lato forse, importante anche quello, ma da un certo punto di vista lo potremmo definire ucronico, è un po’, risiede tutto nella tragicità del destino di Giovanni. C'è da chiedersi se Giovanni avrebbe potuto essere un politico, probabilmente sarebbe stato, forse, non lo sappiamo, se avesse avuto tempo, se ci fosse riuscito, se fosse stato all'altezza, avrebbe potutto essere un politico meno abile di quanto era abile capo militare, meno coraggioso politicamente, di quanto era coraggioso sotto il profilo tattico e strategico, però certamente, duole che uomini come Giovanni, e uomini come Francesco Ferrucci o uomini come tanti altri siano scomparsi in questo vortice tragico di queste cosiddette guerre d'Italia, duole perché a guardarle evidentemente col senno di poi e con la dovuta distanza di mezzo millennio, noi oggi, che cerchiamo faticosamente di ritessere una identità italiana al nostro paese, alla nostra storia, l'identità tessuta alcuni decenni orsono ci sta ormai stretta, la sentiamo logora, abbiamo bisogno di ripensare la nostra storia, ci rendiamo sempre più conto come quel nodo, quel nodo problematico affiorato tra la fine del quattrocento e i primi del cinquecento costituisca veramente per l'Italia, se si vuole, una grande occasione perduta, poche volte la storia della penisola italica ha coinciso con la natura profonda della tradizione storica della penisola italica stessa, come durante la cosiddetta politica dell'equilibrio, che non era come invece l'abbiamo intesa, minimalizzando Guicciardini, perché Guicciardini invece queste cose l'aveva spiegate molto bene, ma la lettura solastica del Guicciardini a minimalizzato tutto. Non era affatto una politica del piede di casa, non era una politica furbastra e semi-impotente, una politica vile, una politica renunziataria, una politica di corto respiro, sì, col senno di poi davanti al franare di tutte le libertà italiche al primo colpo di cannone, o di bombarda, o al primo arrivo di gendarmi francesi, gendarmi nel senso quattrocentesco, cavalieri armati etc, Machiavelli l'ha dovuta scrivere la pagina amarissima, credevano i nostri principi che per reggere un popolo bastasse chiudersi in uno studio, scrivere una bella lettera, adornarsi di belle vesti etc., ma questo è lo sfogo amaro di un geniale teorico della politica, che poi quando gli facevano fare la politica sul serio cessava immediatamente di esser geniale, ma come teorico della politica lo era, però non corrisponde proprio ai fatti, i fatti ,invece, gli presenta molto bene Guicciardini, quest'equilibrio in realtà era un equilibrio, nel quale i signori d'Italia tenevano in mano le redini della politica e dell'economia un po’ di tutto il mondo euro-mediterraneo, per così dire, dove a Milano, a Venezia, a Napoli, a Roma, soprattutto a Roma, si tessevano un po’ le fila della grande politica europea, la politica dell'equilibrio, non era solo una politica d'equilibrio italico, e nello stesso tempo, era una politica corrispondente alle tradizioni policentriche del nostro paese, questo policentrismo che ad un certo punto si è fermato e si è fermato perché per una serie di concause la fragilità politica e militare di certi stati, le rivalità fra certi stati italici ed altri stati italici non hanno permesso al delicato meccanismo, che forse non era stato inventato da Lorenzo dè Medici, ma certo che Lorenzo il Magnifico aveva capito meglio di altri, a un certo punto si è inceppato, ed è stato un peccato, è stata una battuta d'arresto, siccome nessun processo storico coincide con uno sviluppo scritto da qualche parte, non a livello immanente per lo meno, a un altro livello può anche darsi, ma parlando di queste cose faremmo teologia della storia, e qui non dobbiamo far teologia della storia ma storia, punto e basta, magari con la s minuscola, quel momento, magico, che è durato in fondo, che è durato una buona cinquantina d'anni o poco più, e poi non si è più ripetuto, e il fatto che quello sviluppo sia stato interrotto, violentemente, sia stato interrotto con una rottura violenta, e non in seguito a una serie di ragioni, diciamo così tra virgolette, naturali, a fatto sì che poi il cammino della penisola italica, anche dell'Italia come identità, dell'Italia se volete come nazione, abbia subito un ristagno, e quando a ripreso, a ripreso su tutt'altre basi, probabilmente basi meno legate con la realtà profonda, della nostra struttura storica, di quanto non fossero invece quelle affiorate durante il quindicesimo secolo, siamo davanti quindi ad un Giovanni dè Medici che è una figura di limite, è una figura di margine, quasi una figura che chiude simbolicamente un periodo, e forse ecco, quest'immagine funebre a cui noi siamo abituati, questa specie di figura paterna refoulè, come direbbero gli psicanalisti, che ricorda un pochino la statua, l'immagine è anche quella di una paternità refoulè del commendatore di Mozart, richiama proprio a questa, questa idea di un processo storico italico che si era avviato e che ad un certo punto si è interrotto per tutta quella serie di concause della storia in cui evidentemente non si può dire che quello che accade, accade perché deve accadere, perché il determinismo in storia non paga, ma nello stesso tempo, si deve dire che, poche volte i segni degli uomini o dei gruppi poi, il vecchio rosmini questa la chiamava eterogensi dei fini, corrisponde veramente ad un risultato storico acquisito, e questo è l'elemento veramente tragico, al di là della tragicità sanguinolenta, sanguinante della fine di Giovanni dalle Bande Nere, è l'elemento tragico che proprio è insito nel messaggio storico che ci viene da questo personaggio, d'altra parte è giusto anche ricordarlo per quello che storicamente ha significato per Firenze, lui, Savonarola, Ferrucci, personaggi diversissimi, che sono diventati per la nostra identità cittadina i custodi ultimi, falliti, sconfitti, della libertà cittadina, che ad un certo punto è stata troncata, è stata vinta, però è vero che molte volte nella storia, la grande storia ai vinti, contrariamente all'oleografia dominante, la grande storia la fanno più i vinti che i vincitori. Grazie.

 

 

IL FINE